
Nel vasto panorama della letteratura fantastica, pochi romanzi possono vantare l’aura misteriosa e il fascino evocativo di Lud nella Nebbia (Lud-in-the-Mist), pubblicato per la prima volta nel 1926 e recentemente riproposto in Italia dall’editore Cliquot. Scritto da Hope Mirrlees, un’autrice inglese oggi purtroppo poco nota al grande pubblico ma osannata dai cultori del genere, questo romanzo rappresenta una delle pietre miliari del fantasy moderno, un’opera che ha anticipato per stile, atmosfera e tematiche molte delle suggestioni che sarebbero poi divenute centrali ne Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien.

L’angolo del lettore – Lud nella nebbia
Una delle caratteristiche più sorprendenti di Lud nella Nebbia è la sua impostazione narrativa e tematica: a differenza delle epopee mitologiche e cavalleresche tipiche del fantasy agli inizi del Novecento, Mirrlees costruisce un mondo profondamente ancorato a una quotidianità immaginaria a tratti quasi borghese, dove la magia è un elemento rimosso, dimenticato, sgradito. La città di Lud, capitale della repubblica di Dorimare, vive in una sorta di isolamento istituzionalizzato, separata dal mondo delle fate che si estende oltre le colline e la nebbia, ma con il quale in un tempo ormai dimenticato era in contatto.
L’elemento fantasy, qui, non si manifesta con draghi, battaglie epiche o artefatti magici
Questa separazione non è solo geografica: è simbolica, sociale, culturale. Gli abitanti di Lud hanno trasformato l’antica magia in tabù, hanno scelto la razionalità, l’ordine, la legge, erigendo un muro ideologico contro tutto ciò che è meraviglioso, irrazionale, libero. La fiaba, in questa cornice, non è più un rifugio per l’infanzia o una narrazione educativa: è un pericolo, una minaccia all’equilibrio sociale. Eppure, come il lettore intuisce fin dalle prime pagine, questa rimozione ha un prezzo, e l’irruzione dell’elemento fatato nella vita ordinaria di Lud è inevitabile, proprio perché parte integrante della sua identità più profonda.
L’elemento fantasy, qui, non si manifesta con draghi, battaglie epiche o artefatti magici (e lascio al vostro personalissimo gusto il giudizio su questo aspetto), ma con sussurri, intuizioni, suggestioni. La nebbia che avvolge Lud non è solo un fenomeno meteorologico, ma un simbolo: confine tra il conosciuto e l’ignoto, tra la coscienza e l’inconscio, tra il detto e il non detto.
Il sindaco Nathaniel, protagonista della vicenda, è un personaggio profondamente umano, vulnerabile, soggetto a dubbi, visioni, trasformazioni interiori, lontano dall’eroe “leggendario” a cui forse siamo abituati con il fantasy ma paradossalmente più vicino al lettore. Riesce così a diventare l’attore protagonista di questa sorta di giallo magico, dove la ricerca della verità diventa l’unico obiettivo.
Sia chiaro, non mancano alcune caratteristiche tipiche del genere che hanno fatto da apripista per il futuro: una propria geografia, una propria storia e mitologia etc. Se il fantasy tolkieniano si fonda su una visione netta del bene e del male, quello di Lud nella Nebbia è più sfumato, ambiguo, profondamente novecentesco. Non esistono eroi senza macchia, né antagonisti assoluti: esistono tensioni, conflitti, zone grigie.
Lud nella Nebbia è un classico atipico, un’opera che sfugge alle definizioni ma che ha lasciato un’impronta silenziosa ma profonda nella storia del fantasy. La sua forza risiede proprio nella sua ambiguità: è un romanzo fantasy, sì, ma anche una favola filosofica, una satira sociale, un viaggio interiore. È un libro che ci ricorda che la vera magia non è fatta di incantesimi o creature straordinarie, ma di ciò che sfugge alla nostra comprensione, di ciò che rifiutiamo di vedere, di ciò che torna — sempre — a reclamare il proprio posto nella nostra coscienza.
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