Men – Recensione

Un horror altamente simbolico tra sensi di colpa e misoginia.

Men - Recensione

Le premesse di Men sembrano ideali per un horror basato sull’inquietudine. Una donna, dopo la morte del marito, che potrebbe essersi suicidato a causa del divorzio, si ritira da sola in una casa di campagna per riprendersi. Qui si ritrova ad incontrare personaggi alquanto bizzarri e, fin da subito, nota qualcosa di sinistro.

Men – La nostra recensione

Man mano che passa il tempo, gli elementi sinistri andranno ad aumentare, mettendo la protagonista in uno stato di profonda angoscia e pericolo. Fin qui, tutto piuttosto lineare e, volendo, canonico. Men tuttavia si distingue dal canone per l’uso massiccio di simbolismo.

A partire dalle prime scene infatti, capiamo che il simbolismo è un elemento distintivo della pellicola. Per esempio, una delle scene di apertura vede Harper (la protagonista) cogliere una mela, richiamando la figura di Eva e del “peccato originale”. L’inquadratura ci fa capire che sarà un dettaglio importante, tanto che i simboli, soprattutto religiosi, diventano sempre più frequenti e necessari alla trama. 

Qui però nasce un problema: il simbolismo è forse un po’ troppo. È come se ogni scena, ogni gesto, andasse riletto ed interpretato tramite le chiavi dell’allegoria e della simbologia cristiana e questo, francamente, toglie un po’ di ritmo e suspense al film.In generale, se non nelle scene finali, che potrebbero causare un po’ di disgusto ai più sensibili, Men gioca sul piano psicologico.

A muovere la storia sono i rimorsi di Harper per la morte del marito (che forse si è suicidato per non affrontare il divorzio) e i suoi ricordi di quella scena. Il periodo trascorso in campagna, le esperienze inquietanti e orrende che la donna vive, sono quindi un momento di riflessione in cui si trova costretta ad affrontare il peso che si porta dietro.

Tutti i personaggi maschili sono interpretati da Rory Kinnear, creando un’atmosfera da scatole cinesi e incastri, che porta con sé un senso di inquietudine. L’intera vicenda è giocata, di fatto, con questi personaggi maschili, che incarnano un modello di mascolinità tossica e misoginia. Fin dalla comparsa del primo personaggio maschile, proviamo un senso di fastidio, che cresce man mano che le sue idee bigotte e misogine fuoriescono. In un certo senso, Harper deve affrontare non solo il senso di colpa, ma anche il peso del patriarcato. Anzi, forse potremmo dire che Harper deve affrontare il senso di colpa proprio per via del patriarcato.
Le idee misogine vorrebbero schiacciarla e farla sentire colpevole. Anche qui, quindi, allegoria e simbolismo. In questo caso però, è un’allegoria molto più evidente e che non rallenta la trama.

Le inquadrature sono molto ben incastrate e l’alternanza tra presente e passato è ancorata sapientemente ai simboli religiosi. Il ritmo rimane tuttavia piuttosto lento, soprattutto nella prima parte. Sebbene la storia sia giocata sul piano psicologico, l’elemento suspense è comunque contenuto. 

Purtroppo, per me, rimane un’occasione mancata. Ha degli spunti interessanti, come il senso di colpa, la mascolinità tossica e la misoginia. Non riesce però a svilupparli nel dettaglio, rimanendo un po’ lento e, a tratti, un po’ noioso e difficile da seguire. Peccato quindi; nonostante le premesse per portare un alto tasso di inquietudine, è come se gli mancasse quel qualcosa per fare il salto al livello successivo.

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